Il lavoro collettivo Referendum 2017: la clau que obre el pany, pubblicato dalle edizioni El Jonc alcune settimane prima dell’1 ottobre, offre alcuni utili contributi per contestualizzare il referendum d’autodeterminazione a Catalunya; un evento apparso a margine del dibattito politico italiano, trattato in una prima fase quasi come un fatto incomprensibile, un vero e proprio oggetto non identificato e via via affermatosi come un tema significativo per la cornice europea, soprattutto grazie all’opera dei mezzi d’informazione lontani dallo scenario mainstream.

E il contesto internazionale, segnato dall’irruzione della potente crisi del 2008, è fin dall’inizio ben presente nel libro: secondo l’autrice dell’introduzione Anna Gabriel, la crisi economica si è intrecciata nei Països Catalans con altri elementi originali quali la crisi delle relazioni con lo stato spagnolo e la crisi della rappresentanza. Preso atto dell’esaurimento del sistema delle autonomie, denunciato come uno strumento del nazionalismo spagnolo, ostile ai diritti sociali, economici, politici e persino culturali, la deputata della CUP presenta il referendum d’autodeterminazione come il mezzo più adeguato per articolare una risposta popolare alla crisi istituzionale, allo stesso tempo “anticamera di un processo constitutente che possa interessare anche le altre crisi”, a cominciare da quella generata dal capitalismo finanziario.

Secondo questa prospettiva, le radici della attuale crisi istituzionale affondano nel processo della cosiddetta transizione spagnola. Referendum 2017 ne denuncia apertamente la rappresentazione idillica, spesso narrata da storici e giornalisti in modo manicheo, se non servile, fino a sfociare in un ritratto ampiamente consenziente con i vizi d’origine delle nuove istituzioni, sorte senza alcuna rottura dopo la placida morte del lider del fascismo spagnolo. Tra i molti esempi che testimoniano la continuità tra il franchismo e il nuovo regime, David Fernàndez ricorda la vicenda del Tribunal de Orden Público, organo repressivo che tra il 1964 e il 1976 apre più di 22.000 processi riguardanti oltre 50.000 persone: “presieduto da Mateo Casanovas, si dissolse il 4 gennaio del 1977. Il 5 gennaio dello stesso anno nasceva, nello stesso luogo, con la stessa presidenza e con gli stessi giudici l’Audiència Nacional, che ancora oggi ci processa, ci giudica e alla quale disobbediamo. E la chiamarono democrazia”. Non è una mera coincidenza il fatto che l’Audiència Nacional sia il tribunale che ha recentemente decretato il carcere preventivo per Jordi Sànchez e Jordi Cuixart, accusati di sedizione e ribellione. L’ex deputato della CUP ricorda inoltre che la stagione della transizione costò 188 morti causati dalle forze dell’ordine e dalla ultradestra, di solito dimenticati nel racconto addomesticato di quegli anni.

L’operazione transizione spagnola, che salva il nucleo duro del regime franchista e lo traghetta nell’era democratica, è analizzata con cura da Blanca Serra. Secondo la militante indipendentista, le elite politiche ed economiche spagnole e catalane hanno portato a termine alcune operazioni fondamentali e gattopardesche per cambiare tutto senza che niente cambi: 1) il ritorno del Presidente della Generalitat Tarradellas dall’esilio, che oggettivamente favoriva il catalanismo moderato a scapito di quello popolare e della sinistra in genere; 2) i Patti della Moncloa del 1977, con i quali Comissiones Obreras e il PCE di Carrillo accettavano la carota del diritto d’associazione sindacale e politica in cambio del bastone della libertà di licenziamento, dei limiti salariali e della sopravvivenza di un tribunale politico ribattezzato Audiència Nacional; 3) la costruzione di un movimento anticatalanista al País Valencià; 4) il riciclaggio della monarchia, che davanti al tentato colpo di stato dei militari del 1981 si può addirittura presentare come campione della democrazia; 5) la costruzione del mito della transizione modello, un racconto che eludeva la repressione sia del movimento basco che di quello catalano e della dissidenza politica in genere; 6) la costituzione del ’78, che benedice un modello duro di capitalismo, consacra la monarchia, afferma la supremazia del castigliano sulle altre lingue, ignora deliberatamente l’esistenza di differenti nazioni, incarica l’esercito della difesa dell’unità dello stato spagnolo e mette una pietra tombale sui crimini e le responsabilità del franchismo. Sei operazioni che hanno beneficiato del disinteresse o della complicità della sinistra spagnola (PSOE, PCE-PSUC) così come dei moderati catalani (Convergència Democràtica de Catalunya e Unió Democratica de Catalunya). Secondo Blanca Serra il comunismo spagnolo, declinato come “eurocomunismo, si inclinó per un’azione e una retorica di riconciliazione nazionale che lo portò a innumerevoli scissioni e alla perdita progressiva dello spirito di rottura rispetto alla monarchia, agli apparati dello stato e alla sua politica sociale. È sintomatico che il PCE fosse legalizzato prima di Esquerra Republicana de Catalunya…”.

E l’analisi di classe della vicenda catalana, implicitamente proposta alla sinistra spagnola e degli altri paesi, è al centro del contributo di Mireia Vehí e Albert Noguera. La deputata e il militante della CUP affermano che la piccola e media borghesia catalana abbracciano l’opzione dell’indipendenza in seguito al passaggio dal modello economico industriale a quello speculativo, immobiliario e finanziario, che comporta per questi settori una perdita d’importanza politica e acquisitiva. Se in un primo momento la rivendicazione indipendentista è solo una forma di pressione per ottenere nuovi benefici, davanti alla risposta centralizzatrice dello stato si trasforma in una opzione strategica. Contemporaneamente gli autori invitano a riconoscere l’ampia base sociale dell’indipendentismo che, senza dimenticare l’eredità storica, si allarga nelle classi popolari in misura proporzionale all’accentuazione dei tratti antidemocratici della costituzione del ’78: “per questi settori sociali, la lotta di classe a Catalunya, la possibilità di definire un patto di fondazione che non riproduca gli interessi delle elite, attualmente prende la forma della lotta nazionale, nella misura in cui solo generando un processo di rottura nazionale è possibile aprire un processo costituente”. I due autori non negano l’esistenza di una elite catalana propensa a indirizzare verso una base conservatrice il processo di emancipazione, però sottolineano che la rottura nazionale diviene allo stesso tempo una “leva per delegittimare il regime del ’78 e precisamente perciò offre opportunità democratiche per le classi popolari, tanto a Catalunya come nello stato”. Secondo Mireia Vehí e Albert Noguera, gli attuali rapporti di forza non consentono un cambiamento a livello centrale dello stato (basti ricordare che PP e PSOE controllano saldamente il Congresso e che il PP ha addirittura la maggioranza assoluta al Senato). I due autori sostengono che il cambiamento è possibile invece in altri punti (più deboli) del sistema e alludono al suggestivo tema del foco (elaborato dalle guerriglie in centro e sud america) reinterpretandolo in chiave disarmata e catalana: “oggi l’unica strategia per mettere in scacco il regime del ’78 non è il centralismo constituente bensì il fochismo costituente. Questa strategia obbliga la sinistra dello stato spagnolo a passare da una concezione conservatrice a una concezione trasformatrice del federalismo”, da intendere cioè non come mera redistribuzione di competenze tra le comunità autonome integrate nello stato spagnolo ma come “riconoscimento del diritto all’autodeterminazione costituente dei differenti popoli”. Una volta acceso, il foco del processo costituente a Catalunya potrebbe contagiare altre regioni, a cominciare da Euskal Herria.

Referendum 2017 si chiude con una considerazione finale di David Fernàndez secondo il quale oggi si decide lo scenario dei prossimi quarant’anni a Catalunya: da una parte un’opportunità democratica e trasformatrice, dall’altra la regressione autoritaria. Prima e dopo l’1 ottobre, queste differenti pulsioni politiche attraversano il paese dando vita a un processo che sembra tutt’altro che concluso. La reazione del governo centrale del PP allo svolgimento del referendum d’autodeterminazione, con le cariche della polizia e l’uso delle pallottole di gomma, ha ribadito il volto antidemocratico delle classi dirigenti spagnole, disposte all’uso della forza per conservare il proprio potere e i propri privilegi. Ma ha ribadito anche e soprattutto l’importanza di un referendum che, tenuto conto del contributo della Generalitat, non si sarebbe potuto svolgere senza l’organizzazione e la determinazione popolare. Un dato di fatto tanto importante, se non addirittura più importante, della schiacciante maggioranza dei si all’indipendenza. Davanti alla violenza della Policia Nacional e della Guardia Civil, è stata la popolazione che ha garantito lo svolgimento del referendum, fatto che ha segnato una significativa vittoria dell’indipendentismo popolare e della sinistra anticapitalista, un punto di chiara rottura degli equilibri costituiti che indica la rotta futura per chi voglia continuare la lotta per l’emancipazione nazionale e sociale a Catalunya.